Il mio passato coloniale italiano
parte prima di molte
Sono nata nel 1967. Gli anni formativi della scuola dell’obbligo, elementari e media inferiore, fino alla scuola superiore sono stati quelli dal 1977 al 1985. Tredici anni! critici per la creazione della cittadina modello: patriota, orgogliosa e, naturalmente obbediente.
Del patriottismo inculcato, anno dopo anno, con la ripetizione di una antichità romana e di una Italia rivoluzionaria e repubblicana mi ha liberata Anna Banti con “Noi credavamo” che, insieme alla lucidità di come si costruisce una nazione mi ha aperto le porte di un antimilitarismo che continua ancora e la consapevolezza che amare luoghi e persone, non necessita di una messa a mollo nel brodo patriottico paternalista e patriarcale di un sistema che chiede obbedienza e rende il femminile superfluo ed episodico. Un’eroina quà e là, sempre Anita Garibaldi e mai Leda Rafanelli.
La storia dell’Italia moderna e contemporanea, per intenderci il ‘900: con le due grandi guerre e gli orrori della modernità è sempre stata relegata negli affanni di fine anno scolastico e di un programma didattico che, chissà perchè, non aveva mai tempo per parlare di Trieste, zona A e Zona B e, naturalmente e soprattutto, dell’impero coloniale: Albania, Grecia, Somalia, Etiopia, Eritrea, Libia e dell’Italia fascista.
In quinta elementare, in terza media e ripetitivamente alle superiori i libri di testo offrivano una generica panoramica della nascita del nazionalsocialismo, la scalata mussoliniana e la perdita della seconda guerra mondiale con un Italia redenta dai partigiani, le partigiane trovate solamente grazie al femminismo irriducibile ed extrascolastico.
Essere antifascista non è stato difficile, innamorata della storia, idealista, femminista anche senza internet trovare testi era possibile. “Se questo è un uomo” letto nel mio primo anno di Università ha cementato una volta per sempre non solo il mio antifascismo ma una comprensione della “razza” come strumento di oppressione.
Poche paginette, molte lacune. Un’educazione civica dove razzismo e antirazzismo sono costruiti e spiegati come una questione individuale, un pregiudizio e la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (sic!) offerta come soluzione unica per un’umanità armonica e individualista. Insomma come l’adolescente e più tardi giovane donna in crescita, l’Italia era parte di una Europa democratica culla di civiltà, meta desiderata e amata, mediterranea (al sud).
Solamente anni dopo, arrivando in Croazia nel ‘94 come coordinatrice di un progetto di aiuti umanitari per le popolazioni sfollate e profughe delle guerre Balcaniche ho cominciato a scoprire e vedere l’Italia attraverso occhi e memorie dell’altr@. Da lì ho scoperto e compreso le foibe, il ruolo dell’esercito regolare italiano e delle camicie nere in Istria. “Trst je naša” (Trieste è nostra) vista da Rijeka fa riflettere.
Vivere a Rijeka è stata per me, piccola provinciale calabrese, un’esperienza fondamentale. Vedere l’Italianità riflessa dallo specchio di un’altra Europa ha fatto venire a galla dubbi, ignoranze involontarie e di sistema e offerto la storia senza censure.
Nel ‘94 ho lasciato l’Italia, sono tornata per brevi periodi ma non per viverci. Salvo brevi interruzioni e pause sono vissuta e vivo nei Balcani e negli ultimi 20+ in Bosnia Erzegovina.
I Balcani mi hanno cambiata, influenzata, offerto spazi di riflessione e relazioni e naturalmente mi hanno aiutato a vedere cose che da calabrese e italiana non avevo visto o saputo vedere.
Cambiare prospettiva è stato un fatto esistenziale, estetico, liberatorio, politico e femminista!
Per anni essere Italiana è rimasto oggetto dormente, consapevole ma inesplorato, oggetto non indagato nelle sua radici e conseguenze.
All’inizio è stato imparare a riconoscere il privilegio del mio passaporto, successivamente imparare che il vero privilegio è questo essere bianca. Per capirci, il mio corpo non è mai stato trattato alle frontiere o dalle varie polizie con la sufficienza ed il sospetto delle migranti ma è stato classificato come espatriato o turista e, per la scelta di vivere in Bosnia, come eccentrico. Essenzialmente libero di muoversi, di andare e/o tornare.
La consapevolezza che privilegi e potere siano interconnessi è femminismo 101.
Crescere è immaginare.
Leggere bell hooks, scoprirsi margine in quanto proiezione femminile nel mondo è stato fondamentale ma in bell hooks razza, classe e genere sono un continuum non si può riflettere su uno senza trovarsi immerse in tutti i margini di cui le vite altre sono tessute. Margini sociali, economici, culturali e appunto razziali. Margini che nominavano un mondo in cui ero centro ed allora, come riguadagnare quella pratica e coscienza se non accettandosi come elemento e parte integrante di quel centro che crea sconforto e rifiuto?
Bisogna sedersi sul fondo di se stesse, guardarsi e lasciarsi guardare, riconoscere ed essere riconosciute. Accettare non significa arrendersi, consegnarsi al centro. Accettare è un passo necessario per decostruire il centro, per separarsene e riguadagnare il margine come simbolo e pratica di una possibile trasformazione individuale e soprattuto collettiva.
La consapevolezza del margine ed il desiderio di viverne la libertà passa da una riflessione continua sulle proprie pratiche, sulla propria relazione ed appartenenze al “centro” o ai “centri”, perchè la vita è multidimensionale. Una, nessuna, centomila. Maschere che sono pelle più che vestito.
Così grazie al margine, ricostruire le linee ereditarie del diritti è più che un esercizio retorico. E’ rendersi conto che i diritti, in quanto fondati su norme che rappresentano lo standard definito dalla maggioranza che si guarda e si riconosce, sono in realtà una categoria chiusa, retorica ed essenzialmente falsa.
Il diritto per essere applicato assume una comunità. Che diritto/diritti possono avere, dunque, coloro che non sono viste, accettate/i come parte di una comunità?
Ci sono voluti anni, decenni per arrivare alla consapevolezza che il razzismo non è una questione individuale ma strutturale. Che appartenenza è una proiezione che alcuni corpi subiscono ed altri godono. Parte di un sistema che si autonomina democratico ma che in realtà è territoriale, radicato in una concezione del sè/noi che va avanti sin dai tempi dell’Inquisizione con l’invenzione dela razza e prima ancora con l’emanazione della ley de sangre e l’inizio delle persecuzioni di Arabi ed Ebrei in quella europa in divenire culla di civiltà!
La costruzione dell’altra/o come essenzialmente estraneo, pericoloso e soprattutto inferiore ha origini storiche, economice dimenticate. Rarefatta e trasformata nel tempo questa costruzione è diventata un’appartenenza, un dna sociale ancora oggi indiscusso, trasmesso e praticato con una genealogia ferrea da una generazione bianca all’altra.
Che la creazione dell’idea di razza è uno strumento di oppressione e giustificazione morale per la acquisizione di proprietà, territori e popoli è un fatto.
Che l’appartenenza bianca costituisce una delle più efficienti catene di connivenza e collusione che unisce appartenenti della razza bianca indipendentemente dalla loro condizione economica, di classe, età, genere e orientamento sessuale, disabilità è un fatto.
Riconoscere e nominare la catena di connivenze e collusioni che ci vuole tutti e tutte bianche in one-fit-to-all serve a spezzare, in prima istanza, l’omertà individuale e successivamente attraverso la riflessione del mio passato coloniale italiano cominciare a costruire relazioni trasformanti.